"Il buono, il brutto e il cattivo"
- Cristina Barberis
- 6 lug 2020
- Tempo di lettura: 18 min

Quando un film diventa un'opera d'arte
Riporto qui la mia recensione che scrissi nel 2017, pubblicata in un blog. Oggi ci ha lasciati soli il grande Ennio Morricone. Riposa in pace Maestro e grazie, grazie di tutto.
Il buono, il brutto e il cattivo è un film realizzato dal regista italiano Sergio Leone nell'ormai, lontano, 1966. Prima che nascessi. Girato per chiudere quella che viene chiamata "La trilogia del dollaro" ha in sè sei elementi portanti che lo rendono un film iconico e insindacabilmente rilevante: l'ambientazione, i protagonisti, i paesaggi, le musiche, i temi affrontati e la regia.
Dichiarato appartenente al genere "spaghetti western" e non dalla quantità ciclopica che Eastwood amava divorare di questo tipo di pasta ma per via dell'estrazione del tutto italiana, dell'invenzione nostrana di un genere prettamente made in USA, a mio parere i film di Sergio Leone esulano dallo "spaghetti western" e creano un genere tutto proprio per il quale il solo riferimento è l'opera stessa. Lo "spaghetti western" ha in sé i film della inossidabile coppia Spencer-Hill o i vari Django (cui Tarantino ha reso ampiamente omaggio) e i vari film dai titoli improbabili che sembrano usciti dalle stesse menti geniali che fanno quelli dei porno. Con buona pace di chi si scandalizza per l'accostamento. Il genere "spaghetti western" è quello per cui "Nel 1971 Franco Ferrini pubblicò sulla rivista Bianco e Nero un articolo in cui individuava nove situazioni-tipo che distinguevano il western all'italiana da quello classico. Queste situazioni riguardavano l'uso diverso che negli spaghetti-western viene fatto dell'alcol, dei nomi, della banca, delle armi, della legge, del cimitero e del duello. Al di là di questo, si può dire che nei western all'italiana il protagonista non è quasi mai un eroe, ma più spesso un antieroe mosso da interesse invece che da motivazioni idealistiche. Il western italiano non è, poi, ottimista né tantomeno moralista come quello classico, e presenta quasi sempre il denaro come unico vero interesse dei personaggi. Le storie e le scene sono in genere più cruente, i personaggi più cinici, "niente più storie d'amore e lunghe e noiose chiacchierate dal tono moraleggiante ma tantissima violenza e azione a volte spinta ai livelli più estremi" (https://it.wikipedia.org/wiki/Western_all%27italiana).
I film di Sergio Leone, pur ricalcando queste tematiche, questo uso di non stereotipi così cari al genere western tanto da crearne sottotipi e film di cassetta generalizzati, che rendevano lo spettatore in grado di capire lo svolgimento del film dopo i primi dieci minuti della pellicola, hanno dalla loro una novità che è Leone stesso. Come ebbe a dire Charles Bronson sull'interpretare il ruolo da protagonista, che rifiutò, il copione non gli sembrava un granché ma era Sergio Leone che ne avrebbe tratto un capolavoro.
L'ambientazione. Il film si svolge negli Stati Uniti, quindi non in Messico, durante la Guerra Civile, la cosiddetta "Guerra di secessione". Non mi soffermo sulla trama che è reperibile comodamente in un subisso di siti internet (gli statunitensi adorano questo film, se volete leggerne in lingua) ma sui temi scelti. L'ambientazione è particolare. Non tanto e non solo perché la Guerra Civile è un tabu che gli Statunitensi non hanno affrontato poi così spesso, ma perché permette di porre l'accento sul perché oltre che sul dove. Sul perché ci ritorno sui Temi Affrontati, qui guardiamo il dove. Girato in Europa, in Spagna, come i due precedenti, ma con un budget decisamente migliore, il film si svolge tra montagne, pianure e paesi ricostruiti, cimitero compreso, che ci danno la visione di un Ovest non solo balle di sterpi che rotolano e deserto, ma anche una vegetazione che disegna addosso ai protagonisti un paesaggio che è un comprimario solido. In genere il paesaggio è uno sfondo in questo tipo di film, parlo del western, la landa dove la diligenza è assaltata, il fiume che la carovana di coloni deve attraversare e che diventa sempre motivo di scontro, incontro, incidente, la prateria che è il luogo ideale per i "selvaggi" per calare come orde vandaliche sui "buoni coloni". Qui il paesaggio è vivo, quando Tuco si vendica del Biondo, lo porta a morire nel deserto e, dice, sia nordisti che sudisti non ci verrebbero mai, perché il deserto fa paura a tutti. Il paesaggio è uno dei co protagonisti del film, basti pensare alla vivezza di quelle rocce dietro il Biondo quando si spartiscono i denari della taglia, lui e Tuco, la prima volta. Sembra uno sfondo alla Tex Willer, altra icona meravigliosa, ma non è disegnato. Se allungate la mano vi sembra di potervi appoggiare dietro il Biondo e questo perché Sergio Leone introduce una cosa essenziale: il primo piano non serve a dirci se i truccatori hanno fatto un buon lavoro ma a dare la misura esatta della scena. Poi dirò del "non visto che non esiste" proprio riguardo a questo. Oppure chi non ricorda il cimitero dove sono nascosti i dollari che sono, in linea di massima, uno dei temi salienti della trama? Un cimitero che sorge attorno ad un'arena vera e propria, fulcro di una scena intensa e indimenticabile. Le case di questo film sono quasi tutte di legno, le boom towns del selvaggio West, che nascevano e morivano nell'arco di pochi anni, dietro i cercatori d'oro o i grandi spostamenti di bestiame (le CattleTown). Tranne quando Angel Eye (Lee Van Cleef, in italiano Sentenza) va dal primo contadino per estorcergli informazioni sull'oro. La casa è uno dei cubi bianchi zuccherosi, il cui intonaco sembra sia stato fatto il giorno prima ma che ha un aspetto vissuto, ove nulla è lasciato al caso. Case che danno l'idea non solo di un insediamento più duraturo ma anche della necessità di vivere in un clima ostile. Altro tema fondamentale dell'ambientazione è la Guerra Civile. Come ebbe a narrare lo stesso Sergio Leone, fino a quel momento, metà degli anni 60 del secolo scorso, sia gli autori delle sceneggiature come le grandi Major avevano preferito semplicemente raccontare un luogo ideale, il selvaggio ovest, molto di maniera limitandosi a caratterizzare luoghi e personaggi in modo stereotipato senza affondare a piene mani nella loro storia recentissima. Se ci pensiamo, nemmeno un secolo prima dalla realizzazione del film, la guerra infuriava sul suolo degli Stati Uniti. Leone scelse di raccontare la Guerra Civile americana, epitome dell'imbecillità e inutilità di ogni guerra. Un tema tabu che fu aspramente criticato, all'inizio. Eppure proprio di questo tema noi vediamo più gli effetti che le scene. Che è esattamente quello che interessava al regista.
I protagonisti. I protagonisti del film sono 4: Il Biondo, ovverosia il Buono, il Brutto, ovverosia Tuco, Sentenza, ovverosia il Cattivo e l'oro. C'è poi un co protagonista che mi ha molto colpito. Il Biondo (Blondie) è interpretato da Clint Eastwood. Alto, taciturno, allampanato, sguardo duro, espressione seria, il Biondo è un cacciatore di taglie, una figura quasi normale in quel mondo e in quel tempo, che si guadagna di che vivere in questa maniera. Diverso anni luce dal classico eroe buono degli western cui avrebbe potuto fare riferimento, Blondie, come l'Americano de "Per un pugno di dollari" non ha un nome e questo è uno dei punti chiave del successo di questa figura. Il Biondo è semplicemente (per quanto lui non sia affatto semplice) l'anima e il corpo di un anti eroe o meglio di un Non Eroe, che si pone al di là e al di sopra di ogni caratterizzazione che fino a quel momento era toccata al protagonista positivo. Cacciatore di taglie, con una sua morale, non interviene a salvare bambini, non spara ai cattivi, non fa nulla di quello che ci si aspetterebbe da lui, ha un suo codice e dà retta solo a quello. Pur essendo duro e chiuso, taciturno, ha slanci di empatia e di rispetto che fanno salire i brividi.Il Biondo è un pistolero di classe superiore, dotato di una sveltezza che ha dell'incredibile, sa sempre come fare quello che deve. Ha i suoi momenti no, non è un super uomo, ma anche nel "no" è Uno che non tralascia nulla, sfrutta tutto quello che può per la sua sopravvivenza, non và mai a scapito di sé. Più intelligente che furbo, dotato di una mente veloce e di una scarsissima fiducia negli altri, non disdegna alleanze improbabili se servono ai suoi scopi. Il suo unico scopo è fare denaro, arricchirsi e sopravvivere al meglio in un ambiente ostile come quello in cui è immerso, nel quale la vita di uomo è davvero legata alla sua prontezza di riflessi. Clint Eastwood alto e magro fu abbigliato in modo che parte di quella magrezza sparisse e sopra la camicia ha un gilet di pelle conciata che presenta una pelliccia all'interno e dà spessore, un cappello marrone e, sopra a tutto, l'iconico, incredibilmente famoso e onnipresente poncho. Indumento comune dei mandriani e dei cowboy, diventa la firma di questo personaggio, oltre al sigarello che gli pende da una bocca spesso serrata. Parla poco il Biondo e quando parla lascia il segno. Sua la migliore condanna di ogni guerra, quando vede l'attacco al ponte da parte dell'esercito nordista contro i sudisti, esclama "Mai visto morire tanta gente e tanto male." Una frase che è un aforisma che definisce e ritaglia l'imbecillità di ogni guerra. Il Biondo si erge sempre da solo, tranne quando Tuco lo insegue o lui insegue il Brutto, o quando Sentenza, il Cattivo, gli propone una "alleanza", a modo suo. Clint Eastwood meglio di chiunque altro ha incarnato la figura dell'essenza dell'Ovest Selvaggio, dove conta la capacità di sopravvivere ad un ambiente ostile, in molti sensi. Dove il non esporsi, il farsi i fatti propri, l'essere veloce di mente e di mano e sapersela cavare, ogni volta, diventano più di bontà e di generosità e di perseguimento del bene, doti vere e proprie. Parlerei per ore di questa mia crush che mi ha letteralmente polverizzata (Biondo rapiscimi!) ma adesso passerò al secondo.
Tuco Ramirez ovverosia il Brutto, che in inglese viene tradotto come Ugly, in modo corretto, è Brutto non solo di aspetto, giacché non è la bellezza dei suoi protagonisti una cosa che interessa al regista o al film, ma Brutto di dentro. Ci si riferisce più all'aspetto psicologico che fisico. Sergio Leone ebbe a dire "Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista nel più banale senso del termine. Come un robot. Non è questo il caso degli altri due personaggi. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco... sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo." (Cristopher Frayling, Sergio Leone: Something To Do With Death, Faber & Faber, 2000, ISBN 0-571-16438-2.). Tuco è un opportunista che pensa solo al suo guadagno personale e differisce dal Biondo per quello che fa, non ha mai ripensamenti, non ha mai momenti di empatia per qualcuno, eppure resta comico, a volte incredibilmente buffo in quella sua fragile idiozia tipica di un cattivo di seconda categoria, di uno che ha preso solo il peggio della vita e se l'è fatto bastare. Di uno che, tutto sommato, ha una spiegazione per essere così come è, la sua infanzia e il fatto che ha un fratello ci vengono detti nel film. Ma resta uno che stupra, ruba, rapina, uccide e fa quel che fa solo per il suo tornaconto. Eppure non riesce a restarci antipatico, quella sua verve comica, al limite del grottesco, prima tenta di uccidere il Biondo e poi vuole essergli amico e solo per motivi del tutto materiali, quella verve comica frutto anche della grande bravura di Eli Wallach, ce lo lascia scolpito nella memoria come uno che, si, gli avremmo dato un pugno in faccia ma anche un sorso d'acqua, coscienti che lui non avrebbe fatto lo stesso con noi, se non gli fosse convenuto. Mentre il Biondo, pur non essendo davvero il Buono, pensiamo quando decide di lasciare Tuco in mezzo al nulla, a 70 miglia da una città, a piedi, ha momenti lucidi di umanità profonda e soprattutto gratuita. Tuco è un personaggio che riesce perfettamente a sostenere il peso di essere accostato al Biondo, l'iconico The Man with No Name che il pubblico ha imparato ad amare grazie a "Per un pugno di dollari" e "Per qualche dollaro in più" che lo hanno preceduto. Vestito come un poveraccio (Eli Wallach scelse da sé come vestire Tuco) tranne che per due anelli che porta a anulare e mignolo della mancina e che avrei voluto per me, Tuco Ramirez è la quintessenza della figura comprimaria, quello che non si ergerà mai al di sopra di nessuno, non certo per le doti morali o di scaltrezza, eppure resta un personaggio a tutto tondo, che dalla sua vita trae il meglio che può con quello che ha. Che, alla fine, resta la cosa migliore che possiamo fare tutti noi. Eli Wallach ha interpretato un personaggio che tutti ricordano, che tutti amano, nonostante sia praticamente negativo, Brutto, come dice il titolo, ma dentro, una brutta persona diremmo se si fosse al bar. La bravura dell'attore ha reso possibile che il suo personaggio fosse comico ma non macchiettistico. Anche se quella frase "Quando si spara, si spara, non si parla." che nel contesto è incredibilmente buffa, esilarante, rende con precisione chi sia questo uomo: uno che bada solo a quello che fa per sé e nel modo che sia maggiormente conveniente.
Sentenza (Angel Eyes) ovverosia il Cattivo, a differenza dei due che lo incontrano e si scontrano con lui, è il Cattivo a tutto tondo, è un uomo che persegue i suoi scopi in modo diretto, efficace, senza tentennamenti. Non suscita simpatia, semmai incute timore. Il suo modo di fissare chi ha davanti, il suo sorriso, quello sguardo solo in apparenza sorridente ma di una durezza che fa rabbrividire, restano un piccolo capolavoro interpretativo. Sentenza è un sicario che sta cercando l'oro nascosto da un soldato confederato, lui sergente dell'Unione, diverso e lontano dall'ideale cavalleresco e romantico dei Nordisti portato fino a quel momento sullo schermo, non esita a servirsi di metodi e di persone brutali (come non ricordare Mario Brega, il perfido Wallace che sevizia Tuco su ordine di Sentenza in una delle scene più violente del film?). Eppure attraverso lo sguardo perplesso e schifato di Sentenza, quando entra nel fortino confederato distrutto, noi abbiamo la migliore percezione dell'assurdità della guerra che il film voglia trasmettere. Sentenza (un accomodamento di quel Angel Eyes che forse nel pubblico italiano non avrebbe sortito lo stesso effetto di quello anglofono) è un uomo spietato. Uno che non inviteresti non solo mai a cena ma nemmeno a sedersi vicino a te sul bus. Un uomo che persegue i suoi scopi e solo quelli e che non bada a nulla e a nessuno e polverizza brutalmente ostacoli e situazioni a lui sfavorevoli. Si serve di comprimari ma poi li scarica, lui vuole solo l'oro e, per quello, è disposto a tutto. A differenza di Tuco, non è comico, non è fragile, non suscita simpatia. E' davvero il Cattivo. Lee Van Cleef, che ho scoperto fosse uomo dolce e mite ed etero cromatico, aveva un occhio verde e uno blu (ma gli facevano usare lenti a contatto che mascherassero il tutto) dà di Sentenza una interpretazione grandiosa, senza sbavature. Quando il pubblico lo vede non si aspetta cedimenti, ammorbidimenti o slanci di generosità. Il pubblico trema e lo odia. Com'è giusto che succeda per il cattivo. A differenza del Colonnello di "Per qualche dollaro in più" qui il personaggio di Van Cleef è perfettamente odioso.
L'oro è il motivo per cui i personaggi principali e secondari si affannano per tutto il film. Un carico di duecentomila dollari oro, una cifra spropositata anche oggi, immaginiamo nel pieno della Guerra Civile, diventa il motivo e la causa scatenante di tutto quello che succede. Sottratta dal confederato Jackson che si fa chiamare Bill Carson, viene nascosta in un posto tanto improbabile quanto geniale.
Per raggiungerlo Tuco e il Biondo faranno di tutto, anche far saltare un ponte di legno che è il frutto della contesa dei nordisti da una parte e dei sudisti dall'altra e che dà la possibilità a Leone di girare una delle più belle scene di massa di un film western, in cui una quantità enorme di gente si ammazza per il possesso di qualcosa che all'Alto Comando sembra importantissimo e non è che una cacca di mosca, secondo le parole del Capitano Nordista (il coprotagonista che mi ha molto colpita e magistralmente interpretato da Aldo Giuffrè) che sogna di farlo esplodere. Grazie a Tuco e al Biondo, questo succederà e il capitano potrà, mortalmente ferito nell'inutile scontro, morire contento. L'oro si trova oltre il ponte. Motivo per cui i due improbabili alleati decidono di farlo saltare.
I paesaggi. Ne abbiamo detto per parlare dell'ambientazione. Girato in Spagna, tra montagne e pianure, valli e lande semi desolate, raccontano come e dove si muove non solo la storia che è narrata ma chi la compone. I paesaggi di questo film sono punteggiati da colori scuri, strettamente virati sui toni del marrone, del verde scuro e dell'accecante color sabbia del deserto. Il direttore della fotografia Delli Colli disse: "C'è stato un punto di partenza, un principio estetico: in un western non si possono mettere tanti colori. Abbiamo tenuto le tinte smorzate: nero, marrone, bianco corda, dato che le costruzioni erano in legno e che i colori del paesaggio erano piuttosto vivi." Eli Wallach ricorda che Leone si ispirava, riguardo alla luce e alle ombre, a Vermeer e Rembrandt.(cit. Marco Giusti, Dizionario del Western all'italiana, Milano, Arnoldo Mondadori, 2007.) Se le montagne sono l'ossatura portante del paesaggio, ce ne sono molte da lasciarsi alle spalle, il deserto dove Tuco porta il Biondo a morire, per vendicarsi dell'analoga decisione dell'altro, diventa in questo film uno dei killer non umani meglio riusciti. Una vasta landa desolata a perdita d'occhio su cui il sole martella con ferocia e indifferenza e che si estende così tanto e con così incredibile pericolosità che Tuco, ricercato, ha taglie su di sé, vi porta impunemente il Biondo, certo che nessuno sarà così matto da percorrerlo. Paesaggio protagonista è il cimitero in cui si svolge il duello finale (Triello visto che sono tre a fronteggiarsi) che fu interamente creato dalla produzione, con l'assemblare ottomila tombe in una fila una concentrica all'altra, tanto che i piedi di questo sepolcreto costituiscono l'arena nella quale i tre protagonisti si fronteggiano. (E che offre una delle scene più incredibili dal punto di vista stilistico, con Tuco che corre in tondo.)
Le musiche. La colonna sonora è opera di Ennio Morricone, geniale autore e narratore, che regala alla storia del cinema e agli spettatori un'altra delle voci narranti del film. La musica fu, in questo caso, stante il budget maggiore, usata durante, si faceva ascoltare il brano agli attori perché capissero la direzione da prendere. Iconica, incredibile, a volte comica, a volte drammatica, a volte epica, rompe gli schemi con la classica musica orchestrale dei film western dell'epoca. Nessuno che abbia sentito almeno una volta uno dei temi del film riuscirà mai a dimenticarlo. Vi sfido invece a canticchiare la colonna sonora de I magnifici Sette o di Ombre Rosse.
Ne Il buono, il brutto, il cattivo, ogni personaggio aveva un suo tema musicale. Era anche una sorta di strumento musicale che interpretava la mia scrittura. In questo senso, giocavo molto con armonie e contrappunti... Mettevo in scena la carta stradale di tre esseri che costituivano un amalgama di tutti i difetti umani... Avevo bisogno di diversi crescendo e momenti spettacolari capaci di conquistare l'attenzione e che tuttavia si accordassero con lo spirito generale della storia. Per cui la musica assunse un'importanza centrale. Doveva essere complessa, con umorismo e lirismo, tragedia e barocco. La musica diventava anche un elemento della storia. Era il caso della sequenza del campo di concentramento. Un'orchestra di prigionieri deve suonare per soffocare le urla dei torturati. In altre parti del film, la musica accompagnava improvvisi cambiamenti di ritmo, come quando la carrozza fantasma appare dal nulla in mezzo al deserto. Volevo anche la musica diventasse a tratti un po' barocca. Non volevo che si limitasse alla ripetizione del temi di ogni personaggio - una sottolineatura. In ogni caso, feci suonare parte della musica sul set. Creava l'atmosfera della scena. Le interpretazioni ne erano decisamente influenzate. A Clint Eastwood questo metodo piaceva molto. (Sergio Leone in Cristopher Frayling, Sergio Leone: Something To Do With Death, Faber & Faber, 2000).
I temi affrontati. A mio avviso i temi portanti del film, che me lo hanno fatto prima apprezzare e poi amare (si, lo confesso, amo questo film e vi dico perché) sono due: la guerra vista come inutile e stupida e la violenza e la sua condanna. Ci sarebbero miriadi di sotto temi, vediamo di andare con ordine. La guerra in oggetto è quella civile, di cui il cinema americano per eccellenza, quello di Hollywood non si era mai occupato volentieri. Sergio Leone arrivò e ne fece l'epitome di ogni guerra: il massacro inutile, la carneficina ( seppure nel film il solo sangue che si vede sia quello di Tuco quando Wallace lo sevizia) sono e restano tali. Sergio Leone ci dice che non ci sono eroi, che non esistono atti di eroismo in guerra, che la guerra è sempre "brutta, sporca e cattiva" e per un dopo guerra ancora così vicino alla Seconda, quello fu un messaggio incredibile. Lo è tutt'ora. In un mondo in cui la Guerra è vista come necessaria e giusta, Sergio Leone ci fa capire che la guerra è solo l'atto finale di una politica di sopraffazione che non serve a dare giustizia o a restituire, ma solo a spostare confini e ricchezze da uno all'altro, quindi è inutile, dannosa e stupida. La frase che fa pronunciare al Biondo è la migliore interpretazione di tutte le guerre, dal principio della Storia che ci hanno insegnato ad oggi. Non esiste una guerra santa, esiste solo la carneficina e il massacro. Questo film ci parla di questo e lo fa con modi asciutti, lasciando capire chiaramente come il regista sposi questa tesi in maniera decisa e chiara. Sono del tutto d'accordo. Non avrei potuto dirlo meglio di come fece Sergio Leone. Un film che fu acclamato dal pubblico e meno dalla critica e che a mezzo secolo di distanza ha milioni di estimatori, anche in un Paese in cui la Guerra è vista come risolutiva da larga parte della sua popolazione. La violenza è sparsa nel film, sottolineata dalla musica che la deve coprire e posta in essere a servizio del film stesso, mai gratuitamente. Non c'è compiacimento del regista nell'uso di violenza, non si vede sangue, se non quando non si può farne a meno eppure la violenza non manca. Da quella di Sentenza che spara con freddezza inossidabile alle sue vittime e non batte ciglio, alle percosse di Wallace su Tuco, alla condanna inflitta da Tuco al Biondo, dalle sberle di Sentenza alla prostituta ai misfatti enumerati dal boia prima di tentare di impiccare Tuco, la violenza in questo film è necessaria alla storia che narra, né più né mai meno, non sbava, non si gratifica, non eccede. Abituati a splatter, sangue a secchiate, organi sparsi e lezioni improbabili di anatomia per bocca e per mano del sadico di turno in troppi acclamati film della nostra epoca, qui la violenza è condannata. Del tutto. Sergio Leone ci dice che esisteva, esiste ed esisterà ma non per questo è necessaria. Non per questo è accettabile. Senza moralismi, giacché non ha morali da dare il film.
La regia. Sergio Leone era al suo terzo film di ambientazione western, disponeva di maggiore budget e di una sceneggiatura che aveva corpo e sostanza. Qui ci regala un film corposo, dura quasi tre ore ma ve ne siete mai accorti? Un film che alterna sequenze in campo aperto, i tecnici non me ne vogliano non sono un'esperta, e che raccontano tutto, senza mancare di dettagli, a primi piani incredibili. Capitolo a parte meriterebbero le armi, che ho adorato. Una delle cose che ricordavo dei film di Leone, da bambina, erano i primi piani. Convinto che le parole fossero in subordine rispetto all'espressività, Sergio Leone "inventa" dei primi piani che raccontano tutto senza parlare. Il film si apre col primo piano di uno dei bounty killer che deve trovare Tuco. Dal viso e dall'espressione di questo tipo, ricordo di aver capito come sarebbe finito. Del resto il regista non sceglie attori belli ma funzionali e più sembrano disgraziati, male in arnese e sfortunati e meglio danno alla storia il loro contributo. I primi piani diventano imperanti nel duello (triello) finale, in cui la tensione palpabile cresce a dismisura dallo spostamento della camera dagli occhi del Biondo (<3 ) a quelli di Tuco a quelli di Sentenza e ognuno di quegli sguardi parla, non li confonderemmo mai, non perché sono di forma diversa ma per il messaggio che mandano. Una pecca che ho notato personalmente e che ho trovato documentandomi è la scarsa attenzione alla sicurezza che Leone metteva sul set, in più di un'occasione il povero Eli Wallach rischiò davvero la vita, così come Eastwood, se si fosse messo dove voleva Sergio Leone per la scena del ponte che salta, sarebbe stato preso in pieno da una delle pietre che si librano in aria dopo l'esplosione. E lo avremmo pianto lì. Proverbiale quel che Eastwood raccomandò a Wallach: quando girava con troupe italiane non doveva mai fidarsi di nessuno riguardo la propria sicurezza. Anche se, in un documentario sulla ricostruzione di Sad Hill ( girato dalla Asociacion Cultural Sad Hill, che vi consiglio di cercare, molto interessante), lo stesso Eastwood ammise che la famigerata scena fosse stata girata con l'uso di due controfigure. Quale è la realtà? Leone era davvero poco attento alla incolumità degli attori sul set? Eli Wallach raccontò che ha rischiato di restare impiccato sul serio. Aneddoti, verità o storie? La regia di Leone ci regala un altro punto di vista: tutto quello che esula dal campo visivo dello spettatore, non esiste e non si sa. Quando Tuco e il Biondo stanno andando verso il cimitero sono catturati dai nordisti del Capitano "Buono", che sbucano, vero colpo di scena, dal lato che noi spettatori non vediamo, perché fuori dello schermo, creando così la necessaria suspense nello spettatore che ignora quanto sta per accadere. Geniale.
Infine... Western atipico e decisamente diverso, "Il buono, il brutto e il cattivo" resta una pietra miliare del cinema. Non dirò delle citazioni, dell'adorazione dei fans, delle scene imparate a memoria, delle battute citate come versetti della bibbia, ma di quello che lascia dentro di me. L'ho visto da sola, in cuffia, con la possibilità di mandare avanti le scene (il pestaggio di Tuco) che non avrei gradito, questo film e ogni opera di Leone & Morricone sono state per anni il mio incubo. Sono dell'idea che film, libri, storie, debbano essere visti e conosciuti quando si è pronti. Imposto dai miei che adoravano Leone, ho sofferto per la differenza (che oggi apprezzo) di conduzione del film. Per me il western era quello dove l'eroe è buono e l'antagonista è cattivo, dove ci sono donne belle e che si sposano col buono. Dove i cattivi sono sistematicamente sconfitti. Ero una bambina che veniva puntualmente disturbata da una visione che non era la sua, sul mondo e, credo, che il divieto imposto ai minori di 14 anni del primo film, ad esempio, avrebbe dovuto essere rispettato anche in tv. Ma in un'epoca, gli anni 70, in cui i poliziotteschi usavano un linguaggio crudo e i tg parlavano solo di stragi e la Rai censurava solo Totò che mette in burla la polizia o le gambe lunghe delle Kessler, chiaramente rispetto per un pubblico non adatto non c'era. I miei non ci badavano. Inoltre la musica di Morricone, che è incredibile e che ha il pregio di narrare senza immagini, era proprio per questo fonte di disagio per me, non solo perché sparata a volume impossibile e volevo dormire per alzarmi presto e andare a scuola la mattina dopo, ma anche perché è una musica parlante. Prendetela così. La musica è una delle voci narranti del film.
In definitiva che cosa ne penso? Sono stata contenta di averlo visto coi miei tempi, con i miei metodi. Perché ho potuto viverlo, sentirlo, vibrarci assieme e sviscerarlo come amo fare. Resta un film che andrebbe visto. Non è un obbligo e non può diventare una forma di classificazione del genere umano, certo. Ma vederlo darebbe un arricchimento, la profondità dei temi trattati, le interpretazioni magistrali, la musica e le ambientazioni ne fanno un capolavoro. Studiato nelle scuole di cinematografia, The good, the bad and the ugly è un magnifico cinquantenne che svincola se stesso e il suo "genere" dalla noia del tempo e dalla assuefazione a prodotti meno carismatici.
Vederlo oggi, ieri o tra altri cinquanta anni, non farà la differenza: resta un Film che riuscirà sempre a trasmettere emozione. Che è quello che si chiede ad un onesto prodotto. Figuriamoci a un capolavoro.
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